Ulisse rigirava in mano l’arco, ne toccava il legno studiandone la superficie e l’elasticità, preoccupato che il tempo e l’incuria lo avessero danneggiato.
– Quest’uomo ha occhio e mano per gli archi – diceva qualcuno dei principi al vicino – forse ne aveva uno simile nella casa del padre, prima che la sciagura lo riducesse così. – E altri aggiungevano: – Più che un mendicante sembra un guerriero.
A voce bassa, questo dicevano i Proci.
Ulisse sollevò il grande arco: poi, come un aedo che accorda la cetra girando la chiavetta che tende il ritorto budello di pecora, senza sforzo lo tese. E con la destra pizzicò la corda per farla cantare.
E il budello cantò con voce di rondine.
I Proci impallidirono. Tutti. E il cielo tuonò, anche se non c’era una nuvola. Allora Ulisse sorrise, perché riconobbe il segno di Zeus. Incoccò una freccia, tese la corda e, restando seduto dov’era, lanciò mirando diritto.
La freccia attraversò i fori delle dodici scuri, tutti, e si piantò nella parete.