Andrea Molesini è nato a Venezia dove vive e lavora, ha insegnato Letterature comparate all’Università di Padova. Inizialmente ha pubblicato libri per ragazzi e poesie, nel 2010 con il suo primo romanzo, Non tutti i bastardi sono di Vienna, tradotto poi in moltissime lingue, ha ottenuto un enorme successo di pubblico e di critica oltre a numerosi riconoscimenti, tra cui i prestigiosi Premio Campiello e Premio Comisso.
Dopo i romanzi: La primavera del lupo, Presagio, La solitudine dell’assassino, Dove un’ombra sconsolata mi cerca, è uscito ora, per Sellerio, il nuovo suo avvincente racconto in cui storia e invenzione si intrecciano, dal titolo Il rogo della Repubblica.
Molesini ha uno stile asciutto con una narrazione fluida, è dotato di una scrittura potente e molto musicale.
La storia de Il rogo della Repubblica (Sellerio) si svolge nel 1480 a Portobuffolè e parte dalla misteriosa sparizione di un bambino, del fatto vengono accusati tre ebrei, sospettati di averlo assassinato e di aver usato il suo sangue per impastare le focacce pasquali. I tre imputati, dopo essere stati torturati, vengono condannati a morte, ma fanno ricorso così il processo si sposta a Venezia, davanti al Senato della Repubblica. Qui entra in scena un personaggio affascinante e torbido, una spia della Serenissima, Boris da Candia, un avventuriero violento, ma al tempo stesso un colto umanista.
In un clima di rabbia, di malcontento popolare, in una città che si sta appena risollevando dalla peste e dalla guerra contro i turchi, le prediche del francescano Bernardino da Feltre scaldano gli animi e istigano all’odio contro gli ebrei. Il doge Mocenigo emana una bolla per cercare di imporre tolleranza e rispetto verso gli ebrei, ma il suo pare più un calcolo politico che una vera convinzione. Non ci sarà il lieto fine, i tre ebrei verranno bruciati in piazza, una tragedia con molti precedenti nella storia passata e che purtroppo è ancora ferocemente attuale, in fondo, come diceva Croce, la storia, nel senso della storiografia, è sempre contemporanea.
Leggendo questa storia di intolleranza, di odio religioso che nega ogni razionalità, ogni umana pietà, mi è subito venuta in mente la vicenda raccontata da Carlo Ginzburg ne Il formaggio e i vermi, incentrata sulla figura del mugnaio friulano Domenico Scandella detto Menocchio, messo a morte dall’Inquisizione alla fine del ’500.
Perché le dottrine istituzionali hanno tanta paura dell’eresia – che spesso si limita a essere una voce fuori dal coro, una capacità di analisi originale e anticonvenzionale – e della diversità di razza, di religione, di abitudini? Non supereremo mai questa difficoltà di comunicazione tra mondi diversi divisi dalle religioni?
Le dottrine politiche servono per legittimare il potere. Il Potere è un fatto: pochi uomini decidono del destino di molti. Chi sceglie questi pochi? E con quale criterio? I re medievali si dicevano investiti da Dio, i monarchi del XIX Secolo invece erano “Re per grazia di Dio e volontà della Nazione”, oggi legittimano il potere ricorrendo all’istituzione del voto popolare. Ma comunque lo si legittimi, il potere ha bisogno di un nemico per farsi riconoscere come necessario: perché ci sia il Buono deve esserci un Cattivo da sconfiggere. Il capro espiatorio è una necessità. I Romani accusavano d’infanticidio i primi cristiani, i cristiani fecero lo stesso con gli eretici, poi con gli ebrei, insomma, torna utile a chi comanda che qualcuno – si tratta sempre di una minoranza – mangi bambini.
In quanto al comunicare tra diversi… beh, gli esseri umani fanno quello che possono, e certo non possono prescindere dalla stupidità che alberga in tutti e in ciascuno, anche nei migliori.
De Gregori ne Il bandito e il campione cantava: ‘Cercavi giustizia trovasti la legge’, un altro tema fondamentale del suo romanzo è il conflitto tra potere e giustizia, da quell’epoca lontana che paralleli può fare con la realtà sociale, politica e civile dei nostri giorni?
Nel XV Secolo non esisteva una separazione nemmeno formale tra i poteri dello Stato: esecutivo, legislativo, giudiziario. L’assemblea legiferante, nel caso di Venezia il Senato, era anche, alla bisogna, tribunale giudicante.
Nella sostanza, però, temo che le cose siano cambiate meno di quel che appare. Oggi come allora la legge ha bisogno della spada per farsi rispettare: l’autorità costituita, che in ogni epoca impugna la spada, sarà sempre tentata di abusare del suo privilegio. Ogni Stato – sia pure nella sua odierna, tentacolare separazione dei poteri – aspira sempre al monopolio della forza, dunque la domanda che ricorre, generazione dopo generazione, è quella di Giovenale: Quis custodiet ipsos custodes? Chi vigilerà sul Potere?
«Non riuscendo» dice Servadio «a fare forte il giusto, gli uomini chiamano giusto il forte».
I suoi romanzi sono spesso ambientati in Veneto e nel Nordest, mi pare molto legato a queste terre, che cosa l’affascina di questi luoghi?
Sono nato e cresciuto nell’arcipelago veneziano, nel sestiere di Castello, quello dell’Arsenale. In questi luoghi d’acqua e di pietra, di colori accesi, nebbie fitte, fetori pungenti, albe e tramonti che spaccano l’anima, qui, dove l’occhio e l’orecchio sono chiamati a fiutare l’andirivieni della marea, si è formato il mio carattere. E qui ambiento le mie storie.
Ma forse c’è un altro motivo: le Tre Venezie sono sempre state un crocevia di popoli e culture differenti, Venezia è stata la cerniera tra Bisanzio e il Sacro Romano Impero. Nel Veneto, nel Friuli, nel Trentino si sono combattute le guerre generate dall’insorgere dei nazionalismi ottocenteschi. E durante la Guerra Fredda la frontiera orientale dell’Italia è stata frontiera dell’Occidente intero. Insomma, da tempi remoti, questi luoghi sono stati un confine di guerra, ma anche di fecondi scambi pacifici tra le culture germaniche, slave, greche e latine, tra mercanti, contadini, pastori e soldati dei monti e del mare.
La sua scrittura sa definire molto bene i personaggi, sono tutti molto caratterizzati, si sente che dietro c’è un lavoro accuratissimo, qual è il suo personaggio preferito tra tutti i romanzi che ha scritto? Ci ha messo qualcosa di se stesso?
Boris da Candia de Il rogo della Repubblica credo sia il più riuscito, insieme al Nonno di Non tutti i bastardi sono di Vienna. Anch’io, come loro, mi sento un ironico mangiapreti. Però sono i personaggi femminili quelli che più mi piace tratteggiare, e forse è proprio a loro che affido il compito difficile di misurarsi col mistero della Verità, che nessuno sa bene cosa sia, ma che a tutti sta maledettamente a cuore.
Com’è stato il passaggio dalla narrativa per ragazzi ai romanzi?
È avvenuto senza che quasi me ne accorgessi. Non credo sia stata un’evoluzione, una scelta consapevole… è successo e basta.
A breve Venezia, come ogni anno, ospiterà la cerimonia del Premio Campiello, lei lo vinse nel 2011, che significato ha avuto per lei questo riconoscimento?
Improvvisamente ho ricevuto un sacco di inviti a cena così sono ingrassato, cosa piuttosto piacevole, poi però mi sono dovuto mettere a dieta, cosa decisamente sgradevole. Ho comunque appurato che vincere è più bello che partecipare.
Le storie che narra sono tutte molto cinematografiche, quale dei suoi romanzi le piacerebbe diventasse un film e chi le piacerebbe lo dirigesse e interpretasse?
Il rogo della Repubblica si presterebbe molto, per la forza dei personaggi, la trama limpida, e i temi della Giustizia, della Fede, dell’Onestà, del Potere, che hanno un’impareggiabile forza emotiva. Su regista e interpreti non so rispondere, ce ne sono tanti di bravi.
Chi è il suo autore preferito? Chi l’ha influenzata di più?
Tolstòj. Guerra e pace è un ineguagliabile esempio di forza e grazia narrativa, è una riflessione travolgente sul magico, palpitante caos di cui sono fatti l’uomo e la sua storia.
Lei è nato e vive a Venezia, com’è cambiata da quando era bambino? Come vede il futuro di questa città?
Quando ero piccolo c’erano più ubriachi e meno turisti. I veneziani erano centomila, il doppio di oggi. Nelle bettole c’erano vino pane e soppressa, oggi soppiantati da spriz ed elaborati tramezzini. Ricordo che quando, ragazzo, entravo in un bar, venivo sempre investito da una risata diffusa. Forse è questa la differenza che noto di più: il declino dell’allegria, che va di pari passo con il trionfo della trivialità televisivo-mediatica e della sua complice, la seriosità. Ma invecchio, e questa potrebbe essere una deduzione azzardata. Sul futuro, francamente, non so pronunciarmi.
Concludo chiedendole un consiglio per tutti gli amanti della lettura: qual è il libro che secondo lei sarebbe importante leggere oggi?
Il Maestro e Margherita, Bulgakov canta l’indecifrabile assurdo che ci attanaglia e determina.